domenica 9 settembre 2018

Vallombrosa e dintorni (2)

Parte absidale esterna della Pieve di Gropina a Loro Ciuffenna
(Foto: M. Grazia Terenzi)

La Toscana è, senza dubbio alcuno, la regione delle pievi romaniche. Sono edifici semplici e severi, il più delle volte "nascosti" in borghi anonimi, lungo le strade che solitamente si percorrono per arrivare in luoghi più noti. Una di queste è sicuramente la Pieve di Gropina, che si trova nel bel borgo di Loro Ciuffenna.
Già il nome del borgo è piuttosto particolare. Sono andata a spulciare qua e là per avere "lumi". Sembrerebbe, da quanto ho letto, che il nome Gropina derivi dall'etrusco "krupina", che vuol dire "popolo, paese, comunità". Qui, infatti, sorgeva una comunità etrusca ed era stato edificato un tempio pagano dedicato a Diana. La Pieve di Gropina è una delle chiese più antiche della Toscana, citata per la prima volta da Carlo Magno nella sua donazione alla diocesi di Nonantola nel 780 a.C.
Pieve di Gropina, Loro Ciuffenna, interno (Foto: M. Grazia Terenzi)
L'interno è sicuramente la parte più interessante, per i cultori del medioevo, del romanico e del bestiario medioevale in generale. Vi si trovano animali fantastici, mostri e scene bibliche. Un vero trionfo di arte, architettura e storia. Non nascondo che, entrando nella Pieve, è come se si entrasse in un'altra dimensione. C'è silenzio. Un silenzio compatto e sacro, oserei dire. E' come percepire la presenza di chi qui ha lavorato, pregato, pianto e sperato. L'aria è satura di queste "presenze" silenziose.
La Pieve di Gropina sorge sul tracciato della Cassia Vetus, che i Romani chiamavano via Clodia, una strada che collegava, in antico, le lucumonie di Arezzo e Fiesole. Si tratta di una chiesa molto antica, dapprincipio più piccola dell'attuale, a navata unica, eretta su quella che un tempo era una domus romana. Quando i Longobardi arrivano in Toscana, si stabiliscono anche a Gropina: la chiesa viene ampliata inglobando quasi completamente la chiesa paleocristiana.
Pieve di Gropina, Loro Ciuffenna, particolare del basamento del pulpito
(Foto: M. Grazia Terenzi)
Sicuramente l'elemento che più colpisce, che più ha colpito me, quando si entra è il pulpito. Esso poggia su blocchi in pietra, materiale di recupero scolpiti a bassorilievo. Si parla, secondo i testi, di un'opera di romanico primitivo. L'unica parte originale è la parte frontale del pulpito, con le sue colonnine annodate (ne ho trovate anche a S. Quirico d'Orcia, anche se il nodo era più "completo") chiamate "ofitiche" dal greco òphis, "serpente". Questi elementi, secondo alcuni studiosi, sono molto vicini al gusto longobardo. Il simbolismo del pulpito è tutto medioevale: evangelisti, figure mitiche e zoomorfe... Tra tutte è possibile distinguere la datazione, incisa sulla tavola che l'angelo di Matteo tiene tra le mani.
Nell'interno della Pieve non vi sono affreschi o mosaici, ma solo pietra grigia e severa. Devo dire che queste linee così essenziali mi piacciono moltissimo. L'aspetto interno, non molto dissimile da quello originario romanico, è dovuto al rifacimento a seguito di restauri operato nel 1968-1971. Le aperture della Pieve sono coperte di alabastro, considerato, nel mondo classico, una pietra divina.
Pieve di Gropina, Loro Ciuffenna, uno dei capitelli raffigurante una
scrofa con quattro maialini (Foto: M. Grazia Terenzi)
Il consiglio che mi sento di dare è quello di lasciarsi avvolgere dalla magia e dal fascino di questo luogo e dal silenzio che promana da tutto ciò che circonda la pieve. Ci si sente come catapultati in un'altra epoca, in un altro luogo... Credo che il compagno di questo mio viaggio, un compagno gradevole e per niente invadente, è proprio il silenzio. Mi ha permesso di percepire il fruscio delle foglie smosse dal vento; un rombo lontano, forse l'avviso di un temporale che si stava scaricando altrove; il richiamo di chissà quale uccello... e poi i profumi, come quello della legna gettata nel fuoco, o della lavanda che, tardiva, ancora punteggia le siepi intorno alle case.
Questo viaggio in Toscana è stato una sorta di viaggio spirituale, lo confesso. Un viaggio nel quale ho capito molte cose di me stessa e, nel contempo, ho iniziato a percepire la magica armonia della natura e delle cose tutte che mi accompagnano ogni giorno. In ogni luogo. Anche nella città in cui vivo, che sempre meno mi somiglia e che sempre più non mi piace. 

Vallombrosa e dintorni (1)

Sulla SP 85 per Vallombrosa (Foto: M. Grazia Terenzi)
I viaggi in Toscana sono, per me, sempre fonte di ispirazione, sia per la mia vita interiore che per le fotografie. Adoro i paesaggi toscani, le colline, i cipressi in fila come dei frati, le pievi... In realtà adoro la Toscana in tutte le sue declinazioni di colori e di paesaggi.
Quest'anno sono andata a Vallombrosa, là dove sorge la famosa abbazia formata da San Giovanni Gualberto. Un luogo immerso nella bellezza di boschi di faggi, tra paesaggi che tolgono il fiato e il senso acuto e permeante del sacro che sembra aleggiare su ogni cosa.
L'albergo in cui ho alloggiato si trova a circa 2 chilometri dall'abbazia. Un percorso che si può fare tranquillamente a piedi, magari dopo pranzo, quando c'è bisogno di smaltire quanto si è mangiato e c'è una sorta di sacro, impenetrabile silenzio che chi come me, abitante obtorto collo della città, avverte come un vero e proprio balsamo per l'anima. Del resto il silenzio è il re di questi splendidi luoghi. La visita all'abbazia è possibile fino ad agosto, sicché ho trovato il complesso religioso praticamente chiuso, al di fuori della "farmacia" e della chiesa. Comunque anche un giro dell'edificio è sufficiente a percepire l'importanza dell'ordine vallombrosano.
L'ingresso all'abbazia di Vallombrosa (Foto: M. Grazia Terenzi)
Vallombrosa dista circa 37 chilometri da Firenze e si trova a 1.000 metri di altezza. Aria buona, dunque! Nell'XI secolo d.C. questo luogo è noto come "Cerreto", "Acquabella" o anche "Acquabona" e, infine, Vallombrosa, il nome che è prevalso sugli altri. Anche la storia di San Giovanni Gualberto è piuttosto interessante: nobile fiorentino, viene obbligato a vendicare la morte di un suo parente assassinato. Di fronte al responsabile del delitto che invoca pietà, però, Giovanni Gualberto ha una vera e propria "illuminazione", gli concede il perdono e decide di dedicarsi a Dio.
Prima dell'arrivo di Giovanni Gualberto a Vallombrosa vi sono già due monaci che vivono in eremitaggio: Paolo e Guantelmo (questi "antichi" avevano nomi piuttosto particolari, per la verità!). Giovanni Gualberto impone la sua visione severamente benedettina al nuovo ordine nascente: povertà evangelica, vita di preghiera, ospitalità e lavoro.
L'abbazia ed i monti retrostanti (Foto: M. Grazia Terenzi)
Il primo documento che menziona Vallombrosa è del 1037. Si tratta di una donazione di un chierico fiorentino, un tal Alberto, che si è unito alla comunità vallombrosana. Nel 1058 è consacrata la chiesa, costruita in pietra. Risulta esistente già il monastero. Nel 1224 quest'ultimo viene ampliato perché la comunità è cresciuta notevolmente. Viene anche iniziata la costruzione di una nuova chiesa, che viene terminata nel 1230. Quel che oggi si vede, però, risale a molti secoli dopo. La ricostruzione dell'abbazia, infatti, data al XVII secolo ed è conseguenza di un incendio.
Nel 1644 crolla il portico antistante la chiesa e viene costruita l'attuale loggia che nasconde l'originale facciata romanica. Nel 1695 viene demolita l'abside e costruito l'attuale coro e l'attigua cappella di San Giovanni Gualberto. I lavori di restauro terminano nel 1755.
Personalmente non ho un grande "amore" per il Seicento ed il Settecento. Preferisco altri secoli ed altri stili. Comunque credo che tornerò a visitare meglio l'abbazia il prossimo anno, magari verso fine agosto, visti i periodi di visita. Piccola notazione: la persona che è addetta alla "farmacia" è piuttosto scorbutica ed inviterebbe ad allontanarsi, anziché a proseguire l'esplorazione del negozio e del luogo. Meglio far finta di niente e dare un'occhiata in giro. La "farmacia" non è proprio molto ben fornita (quella di Camaldoli è molto più ampia e ricca) però qualcosa si può trovare.

sabato 30 giugno 2018

La chiesa dei santi Nereo e Achilleo

Chiesa dei Santi Nereo e Achilleo (Foto: M. Grazia Terenzi)
Non paghi della lunga passeggiata nelle Terme di Caracalla, abbiamo deciso di visitare la vicina chiesa dedicata ai Santi Nereo e Achilleo. E' una chiesa molto "gettonata" per i matrimoni, perché molto suggestiva e sicuramente scenografica per l'interno ricco di pitture parietali che ben figurano nelle fotografie dei nubendi. Ho partecipato a due matrimoni in questa chiesa. Fortunatamente domenica scorsa era praticamente a disposizione di chi la voleva semplicemente visitare, così ne abbiamo approfittato.
Siamo entrati e subito silenzio e luce ci hanno avvolti in modo piacevolmente lontano dal chiasso e dalla frenesia che accompagnano solitamente gli eventi che qui si celebrano. Ci siamo aggirati tra le navate quasi in punta di piedi e comunicavamo a bassa voce, quasi a non voler disturbare "qualcosa" o "qualcuno" che abita quel luogo. La chiesa sorge nei pressi del luogo dove un tempo c'era un "titulus fasciolae". I "tituli" erano luoghi fisici dove si riunivano i primi cristiani. Il nome "titulus" richiama la targhetta posta solitamente posta fuori di questi luoghi, una sorta di primitivo campanello con nome che sta, oggi, fuori dalle porte delle nostre case. Il "titulus fasciolae" prende nome anche dalla benda caduta da un piede di S. Pietro mentre veniva condotto al martirio. Così vuole l'agiografia "ufficiosa". Quanto ci sia vero nell'evento, nessuno può dirlo.
Chiesa di santi Nereo e Achilleo, interno. In fondo a sinistra l'ambone che
poggia su una base di porfido proveniente dalle Terme di Caracalla
(Foto: M. Grazia Terenzi)
La chiesa diventa "titulus sanctorum Nerei et Achillei" nel 595 d.C. e nell'814 papa Leone III la sposta nel luogo dove si trova attualmente e la orna con mosaici in parte ancora visibili nell'arco trionfale. Gli affreschi dell'abside sono del 1600, come il portale fra colonne. I pilastri sono del '400, mentre l'ambone è stato posto su una base in porfido proveniente dalle Terme di Caracalla.
Nel V secolo d.C. accanto alla chiesa c'è uno xenodochio, dove vengono curati i pellegrini in viaggio a Roma. Chi, sfortunatamente, muore, viene sepolto nell'area delle Terme di Caracalla, all'epoca in completo stato di abbandono.

Passeggiata alle Terme (2)

Terme di Caracalla, fregio marmoreo (Foto: M. Grazia Terenzi)
Per dirla tutta siamo rimasti mezza giornata a vagare sopra e sotto e intorno alle Terme di Caracalla. Il tempo invitava: malgrado un bel sole, non faceva molto caldo. E poi avevamo voglia di camminare e di perderci nelle memorie storiche e nei colori che, in certe giornate, Roma sa generosamente regalare.
In un'epoca più vicina alla nostra, nel XIV secolo, le Terme di Caracalla "ospitano" vigne ed orti. Ben strana destinazione per un complesso che, un tempo, era l'orgoglio di imperatori e cittadini. D'altro canto l'acqua non manca e quello spazio così grande deve in qualche modo essere sfruttato. Ancora non si parla di "recuperare le memorie del passato", né, tantomeno, di visite guidate o di turismo culturale. Malgrado questa particolare destinazione d'uso, ancora rimangono in piedi fusti di colonne se non proprio colonne intere.
Terme di Caracalla, sotterranei (Foto: M. Grazia Terenzi)
Il disastro, però, era vicino ed aveva il nome di Paolo III Farnese, pontefice dei primi anni del XVI secolo, il quale devasta l'area per gli scavi della sua nuova residenza. I papi si sentono, in quegli anni ed anche nei successivi, un pò gli eredi di quegli antichi imperatori pagani che tanto avevano avversato, il che fa suonare il tutto come una sorta di tardiva vendetta, almeno alle mie orecchie. Dopo le devastazioni scellerate di questo papa-re, antesignano di altri del genere, le Terme di Caracalla cadono di nuovo nell'oblìo. Un altro pontefice, Paolo V, addirittura le concede ai Gesuiti per farvi un parco giochi per i ragazzini a loro affidati.
Per scavi seri e sistematici le Terme devono aspettare il 1824, quando sono, tra le altre cose, scoperti dei magnifici mosaici con raffigurazioni di atleti ora conservati ai Musei Vaticani. Insomma i papi, in qualche modo, si sono presi un pò tutto quello che un tempo rappresentava la ricchezza e l'opulenza delle Terme. Nel 1870 il monumento diventa proprietà dello Stato. L'ultimo ritrovamento all'interno delle Terme, dopo anni di scavi e di reperti, risale al 1996: una statua acefala di Artemide (la Diana dei Romani) che era stata usata come basolo di strada in un restauro (!), ora ospitata nell'aula ottagona delle Terme di Diocleziano. Dal 2001 le Terme di Caracalla ospitano di nuovo eventi lirici e musicali su un palcoscenico all'aperto temporaneo e rimovibile.
Terme di Caracalla, sotterranei (Foto: M. Grazia Terenzi)
Da qualche tempo sono aperti anche i sotterranei delle Terme di Caracalla, che ospitano un'esposizione di decorazioni trovate in situ e parte delle opere di Mauro Staccioli. E' impressionante percepire la grandezza delle gallerie sotterranee, vere e proprie strade coperte lungo le quali, quando le Terme erano perfettamente funzionanti, si aggirava il personale di servizio addetto all'immagazzinamento del legname che arrivava qui direttamente con carri e cavalli! C'era anche un mulino, nelle gallerie, nonché tutto il necessario per mantenere l'acqua delle varie piscine calda o tiepida al bisogno. Gli antichi Romani non finiscono di stupire! Del resto queste vere e proprie strade sotterranee sono alte 6 metri e larghe altrettanto.
Nei sotterranei era presente anche un mitreo (visitabile, però, con un permesso speciale), il più grande di Roma. Dunque i sotterranei dovevano essere una vera e propria sala operativa che doveva garantire il benessere di chi, al di sopra, frequentava palestre e piscine: più di 6.000-8.000 persone al giorno suddivise in diversi turni.
Uscendo dalle Terme eravamo piuttosto storditi, devo dire. Tanta grandiosità silente non lascia indifferenti. Nei viali che si snodano lungo il percorso di visita aleggia, sottile, il profumo delle siepi di bosso. I pini e le siepi contornano ancora le memorie del passato e, con un pò di attenzione, sembra quasi di udire il mormorare tranquillo delle acque che alimentavano piscine e fontane...

Passeggiata alle terme (1)

Rovine delle Terme di Caracalla (Foto: M. Grazia Terenzi)
Domenica scorsa abbiamo fatto una bella passeggiata, approfittando della giornata di sole. Da tempo immemore, oramai, non visitavo le Terme di Caracalla (il link suggerisce un modo comodo di prenotare i biglietti e di seguire gli itinerari di visita, oltre ad altre notizie utili quali il prezzo dei biglietti, gli orari e la dislocazione delle Terme). E' strano come noi romani spesso siamo quelli che meno conosciamo la nostra città. Soprattutto la grandezza delle antiche costruzioni e la loro storia. E va bene che stiamo parlando di tempi passati e che non tutti possono essere amanti dell'archeologia e della storia, ma sono comunque queste memorie solide che rendono la nostra città un'unicum, un museo all'aperto, come spesso viene definita.
Le Terme di Caracalla sono, forse, dopo il Colosseo, il simbolo della grandezza della Roma antica. Occupano un'area enorme: 337 x 328 metri. Ho cercato di immaginare come dovesse essere il cantiere ed ho pensato che i cantieri di cui ci lamentiamo oggigiorno sono davvero niente al confronto! I ricercatori hanno calcolato che siano stati impiegati ben 9.000 operai (credo che la maggior parte fossero schiavi) per cinque anni! Le Terme di Caracalla sono state un'idea di Settimio Severo, ma a portare a compimento quest'opera incredibilmente grandiosa è stato suo figlio, Marco Aurelio Antonino Bassiano, meglio conosciuto come Caracalla, che le ha inaugurate nel 216 d.C.. Ovviamente un complesso così grande ha richiesto molto tempo per le "rifiniture", tant'è vero che sono stati trovati affreschi ed è stato accertato che anche alcuni porticati sono stati completati sotto i successori di Caracalla, Eliogabalo e Severo Alessandro (235 d.C.).
Terme di Caracalla, palestra orientale (Foto: M. Grazia Terenzi)
Quando si entra per la visita, si ha immediatamente la percezione della grandiosità del complesso, malgrado quel che ne rimane sia davvero poco se confrontato a quel che doveva essere in passato. I ruderi sono conservati per un'altezza di 30 metri, corrispondente a due piani, ed altri due piani sono nel sottosuolo, ora visitabile. Mi sono sentita davvero piccola, avanzando lungo il percorso ben realizzato e tenuto. Mi sono guardata intorno e malgrado le mura siano solo dei colossi solitari, l'impressione è veramente di qualcosa di inconcepibile ancor oggi.
Gli antichi Romani amavano molto le terme, i "balnea", come li chiamavano. Oltretutto il prezzo d'ingresso era irrisorio e permetteva a tutti di usufruirne. All'interno, oltre alle "classiche" piscine - calidarium, frigidarium, tepidarium - c'era anche una biblioteca ed un parco ombreggiato dove poter passeggiare chiacchierando con gli amici.
Terme di Caracalla, frammento di mosaico pavimentale della natatio
(Foto: M. Grazia Terenzi)
Nel V secolo d.C., in piena "epoca cristiana" dunque, le Terme di Caracalla ancora funzionavano e meravigliavano i contemporanei. Purtroppo nel 537 d.C. le Terme vennero abbandonate: i barbari - i Goti di Vitige, per la precisione - tagliarono gli acquedotti che rifornivano Roma, per poter prendere la città per sete. Da questo momento vi fu un declino inarrestabile.
Gli spazi delle Terme divennero addirittura un cimitero per i pellegrini che si ammalavano nel viaggio di visita a Roma e che erano ricoverati nel vicino xenodochio (praticamente una sorta di ospedale) della chiesa dei santi Nereo e Achilleo. Per non parlare, poi, dei marmi che adornavano il complesso, facile preda dei "costruttori di chiese", che, trovando tanto ben di Dio a buon mercato, non hanno esitato a portarlo via per adornare i templi della nuova religione, come il Duomo di Pisa, dove vennero "riciclati" tre capitelli con le aquile e i fulmini di Zeus provenienti dalla palestra orientale.
Terme di Caracalla, natatio (Foto: M. Grazia Terenzi)
Aggirandomi nei grandi ambienti che, un tempo, erano palestre e piscine, non ho potuto fare a meno di notare i preziosi mosaici che li adornavano, ora anch'essi ridotti a pallide, se pure eccezionali, memorie. Certamente molta parte, nella decadenza e nella frammentazione dei resti, è dovuta alle asportazioni operate dopo il V secolo d.C., ma bisogna anche pensare che Roma sorge su un territorio soggetto a terremoti, ora come nel passato, e certamente lo smottamento visibile soprattutto nella pavimentazione delle palestre (una settentrionale ed una orientale) è dovuto anche ad eventi indipendenti dalla volontà umana. I mosaici che ricoprivano le palestre erano policromi, mentre quelli che pavimentavano il fondo delle piscine (natatio) erano in tessere bianche e nere che riproducevano paesaggi marini, tritoni, nereidi, delfini ed altre divinità che, secondo gli antichi Romani, popolavano il fondo del mare.

(1 - Continua)

mercoledì 20 giugno 2018

Sorprendente Roma: la chiesa di S. Maria in Cappella

La chiesa di Santa Maria in Cappella a Trastevere
(Foto: M. Grazia Terenzi)
Belle scoperte durante una tranquilla passeggiata domenicale. Siamo usciti presto per evitare i "branchi" di turisti al pascolo che ogni giorno invadono il centro di Roma. Ne vedo già troppi durante i giorni lavorativi.
Non avevamo una meta precisa, in realtà, per cui abbiamo deciso, cammin facendo, di inoltrarci nei vicoli del quartiere popolare di Trastevere. Nei vicoli si trovano raramente le ciurme di turisti, che preferiscono le classiche passeggiate su via dei Fori, il Colosseo e via così. I vicoli sono silenziosi, al punto che sembra quasi di trovarsi in un paese. Si sentono persino i rumori consueti di un paese, la domenica mattina, e questo sembra portare tutto a quote più umane.
Ultimamente trovo che il quartiere sia un pò trascurato (come, del resto, tutta Roma, purtroppo!); noto di più, rispetto a prima, le case affastellate e fatiscenti, una certa stanca bellezza, che mi ricorda quelle vecchie prostitute con il rossetto sbavato a ricordare antichi splendori.
La croce della porta santa opera del giovane Borromini
(Foto: M. Grazia Terenzi)
E Trastevere è antica! Qui, al tempo dei Romani, c'era un vero e proprio quartiere multietnico nel quale, nel corso dei decenni, confluirono i poveracci cacciati dall'Aventino, divenuto ambitissima "location" per ville nobiliari ed imperiali. E il sapore popolare Trastevere l'ha conservato tutto. Si dice che qui vivano i veri Romani, quelli che sono tali da sette generazioni. Ma, almeno per me, è una sorta di leggenda mitologica.
Proprio vagando senza meta per Trastevere ci siamo imbattuti in una graziosa chiesetta, non lontana da piazza dei Mercanti: la chiesa di Santa Maria in Cappella, un tempo annessa ad un ospedale per casi cronici. Si tratta di una chiesa molto antica, risalente all'anno Mille, chiamata la "Cappella Sistina" di papa Urbano II, il quale viveva asserragliato sull'isola Tiberina per proteggersi dall'antipapa che si era insediato in Vaticano e pare abbia tenuto, proprio a Santa Maria in Cappella almeno un Concilio.
S. Maria in Cappella, navata sinistra, ricostruzione della corsia di
ospedale che era qui installata (Foto: M. Grazia Terenzi)
Nel medioevo la chiesa venne in parte allestita per ospitare la corsia di un ospedale, frutto dell'evergetismo dei Ponziani, un membro dei quali era il marito di Santa Francesca Romana che operava proprio nell'annesso ospedale dedicato al SS. Salvatore, oggi Casa di Riposo Santa Francesca Romana. Nell'entrare, sulla destra, si può vedere una croce mosaicata. Si tratta di uno dei primissimi lavori del giovane Francesco Borromini, quando lavorava alla Fabbrica di San Pietro. La croce era un tempo posta su una porta santa che papa Urbano VIII Barberini voleva per il giubileo del 1625. Il successore di Urbano VIII, Innocenzo X della potente famiglia Pamphilj, fece demolire la porta e regalò la croce mosaicata a Donna Olimpia Maidalchini Pamphilj, che i Romani apostrofavano dispregiativamente "la Pimpaccia".
Entrando nella chiesa, nella navata destra, è stato allestito un piccolo "spazio espositivo" con alcuni ritrovamenti effettuati durante lavori di scavo al di sotto della chiesa (un altro spazio, che occupa la navata di destra, permette di apprezzare gli scavi ed alcuni ritrovamenti). Si può vedere, insieme con qualche reperto, anche due letti che danno l'idea della piccola corsia d'ospedale che qui trovava posto.
L'atmosfera della chiesa è serena e raccolta. Quando l'abbiamo visitata, un giovane sacerdote si affaccendava attorno all'altare per preparare la messa. Un anziano se ne stava seduto ai primi banchi in silenzio. Talmente è pregna di sacro, l'atmosfera, che confesso di aver camminato in punta di piedi.
Ecco, allora, qualche indicazione per una salutare passeggiata lontano dai rumori di Roma e, soprattutto, dai turisti:
Chiesa di Santa Maria in Cappella
Via Pietro Peretti n. 6 - Roma
Si può visitare anche il Museo allestito nel piccolo ospedale della chiesetta (non ho potuto farlo domenica scorsa, ma conto di andarci quanto prima). Il museo è aperto tutti i giorni, dalle ore 9.00 alle ore 18.00, con ultimo ingresso alle ore 17.30. Il biglietto costa € 6,00.

sabato 16 giugno 2018

Paestum, il passato nascosto

Paestum, antico casolare abbandonato su via di Porta Sirena
(Foto: M. Grazia Terenzi)
Paestum è, per me, un luogo della memoria. Ci sono tornata spesso, negli ultimi dieci anni (più o meno...). Essenzialmente per la sensazione di tempo dilatato che provo non appena metto piede in questa parte del sud Italia.
E' difficile descrivere cosa sia il "tempo dilatato". Vivendo in città ho esperienza dell'isteria collettiva che finisce per travolgere anche quelli che, come me, hanno una concezione del tempo più tranquilla e lenta. Fatico non poco a mantenere questa concezione del tempo. Inevitabilmente, quando il bus è in ritardo ed ho un appuntamento oppure quando c'è qualche scadenza imminente, mi capita di essere investita in pieno da quell'ansia e quel correre a qualunque i costi che sembra il modus vivendi della maggior parte degli umani urbani.
Spiaggia di Licinella-Paestum (Foto: M. Grazia Terenzi)
Ecco, tutte queste cose non le percepisco quando torno a Paestum. Psicologicamente comincio a rallentare tutto: azioni, pensieri, giornate, tempo. E' come se fossi al termine di una lunga corsa e mi fermassi a riprendere fiato e a riacquistare il ritmo del respiro. Ed anche il ritmo della vita che mi è più congeniale!
L'area archeologica di Paestum è pari solo al 30% dell'antica città. I due terzi di quella che un tempo era una fiera "civitas" che aveva l'autorizzazione di battere moneta è sepolta sotto la strada voluta dai Borboni e sotto i ristoranti e i campi che si allargano fino al perimetro delle mura.
Qualche anno fa era stata avanzata l'idea di trasferire il Museo Archeologico a Capaccio Scalo e di espropriare i terreni per poter portare alla luce quello che della città antica non si era mai visto. Credo che non ci fossero sufficienti garanzie economiche. E poi, francamente, il museo "deportato" a Capaccio Scalo non era proprio il massimo. Capaccio Scalo è un grumo di case sorto attorno alla Statale 18 (via Magna Grecia) in modo disordinato. Attraversandolo si ha un'impressione di provvisorietà e precarietà che mal si confà ad un ricettacolo culturale di estrema importanza qual è il museo.
Nella campagna assolata e irrigata da qualche volonteroso agricoltore, sorgono costruzioni abbandonate, destinate a chissà quale scopo ma anche edifici abitativi, in parte ancora occupati dalle famiglie che ne sono proprietarie, in parte cadenti come un pò certo Sud.
Nella prima foto c'è uno di questi casolari. Da via Magna Grecia, superato l'hotel delle Rose, c'è una stradina che porta alla stazione di Paestum e a Porta Sirena. Si chiama proprio via di Porta Sirena.
Paestum, il casolare abbandonato su via di Porta Sirena
(Foto: M. Grazia Terenzi)
L'hotel delle Rose non so se è ancora attivo. La posizione è senz'altro ottima, con le camere che affacciano in parte sullo spettacolare Parco Archeologico e in parte sulla tranquilla via di Porta Sirena. Da anni, però, noto un progressivo e persistente degrado della struttura che, al piano stradale, ospita un bar piuttosto attivo.
Percorrendo via di Porta Sirena in direzione Stazione di Paestum, sulla destra, oltrepassato il cancello di una semi-fatiscente proprietà privata (ultimamente ho notato "fresche" cassette di birra consumata, segno che qualcuno ancora occupa il palazzetto nobiliare che troneggia nel giardino piuttosto trascurato), si trovano delle costruzioni abbandonate, forse stalle, piuttosto suggestive. Al di là vi sono campi irrigati di non so cosa (mea culpa, non mi intendo di agricoltura!). C'è una sorta di cancello che l'anno scorso era chiuso mentre quest'anno era aperto.
Entrambi i blocchi della costruzione sono privi del tetto. Quella in fotografia ha soltanto uno scheletro di travi e l'erba per pavimento. Non so perché mi ha fatto pensare ad una stalla. Forse era soltanto un magazzino oppure il ricovero di balle di fieno e quant'altro. Sono decenni che queste strutture si trovano in questo stato. Malinconia e senso di abbandono. Struggente.
Ogni volta che mi faccio questa bella passeggiata fino a Porta Sirena, mi soffermo davanti a questi ruderi. E' come se in essi ritrovassi i ricordi di un passato che non può ritornare. Un passato fatto di cose semplici, lineari, tranquille. Un passato scandito da un tempo diverso. Un passato che è un pò anche presente. La vita scorre troppo in fretta. Qui, invece, sembra fermarsi, immobile, senza tempo, senza luogo. Ogni volta mi sento attraversata e avvolta da sensazioni difficili da spiegare. Mi fermo lì, davanti a questi muri di pietra, a questi alberi, all'erba che ha occupato un pò tutto e lascio che ogni cosa scorra. In momenti come questi non mi importa molto di chi sono, di cosa faccio e di dove voglio andare. 

lunedì 11 giugno 2018

Teggiano, perla del Vallo di Diano

Teggiano, panorama della campagna circostante (Foto: M. Grazia Terenzi)
Il recente viaggio in Campania mi ha portata anche nell'entroterra della provincia di Salerno, in un silente e grazioso borgo che si trova nel parco del Vallo di Diano: Teggiano. Ci sono arrivata percorrendo l'autostrada Salerno-Reggio Calabria, molto comoda e ben tenuta, devo riconoscerlo. Nel tratto che va da Eboli fino all'uscita per Sala Consilina (dove poi c'è il percorso per Teggiano) ma anche oltre, l'autostrada è gratuita.
Teggiano sorge su una sorta di pianoro elevato in mezzo ad una splendida campagna punteggiata di frazioncine delle quali, onestamente, non ricordo nemmeno il nome. Lui, Teggiano, se ne sta lassù, quasi in disparte, come a volersi distinguere da quanto lo circonda. Il panorama è davvero molto bello, siamo nel Vallo di Diano che prende nome proprio dall'antica denominazione di Teggiano, Diano, appunto.
Innanzitutto devo notare che l'amministrazione cittadina ha ben operato nel dotare il paesino di un comodo parcheggio sotterraneo vicino l'ingresso al borgo e poco distante dal castello. La macchina può stare al fresco per € 0,20 l'ora! Là dove in altri centri il parcheggio, se sei così fortunato da trovarlo, lo paghi € 1,00 l'ora - incustodito, ovviamente - e ti ritrovi la macchina infuocata che neanche una fonderia.
Teggiano, Museo Diocesano, tomba del soldato Bartolomeo Francone
(Foto: M. Grazia Terenzi)
Il paesino lo si visita tranquillamente a piedi, percorrendo strade silenziose, abitate quasi esclusivamente da gatti. Quando sono arrivata c'erano ancora le luminarie della festa di San Cono, patrono della città. Buffo nome, Cono. Sfruttando la "onnipotenza" di internet e dell'immarcescibile Wikipedia, ho trovato che San Cono era proprio un locale, vissuto nel XII secolo, che aveva per padre un certo Bernardo Indelli (o Mandelli o De Indella) e per madre una certa Igniva (nome particolare anche questo!).
San Cono era un personaggio un pò particolare: era scappato di casa e si era ritirato, giovanissimo, in un monastero benedettino e pur di non vedere i genitori che erano andati a trovarlo (i conflitti generazionali attraversano i secoli!), si era nascosto in un forno acceso (!) rimanendo, però, incolume. La festa di San Cono è il 3 giugno e Teggiano condivide il santo patrono con la cittadina di Florida, in Uruguay.
Teggiano, cattedrale di Santa Maria Maggiore, monumento funebre di
Stasio De Heustasio (Foto: M. Grazia Terenzi)
Quando sono arrivata, le finestre ed i balconi di Teggiano erano ancora rallegrati dall'effige del santo che, su tela o su carta, si accompagnava alle bandiere italiane. Una delle prime cose che ho fatto, oltre alla passeggiata di rito, è stata quella di visitare il locale museo diocesano. Per la modica cifra di € 2,50 si entra nello spazio un tempo occupato dalla chiesa di San Pietro. Qui sono raccolte le testimonianze artistiche ed archeologiche rinvenute nel piccolo borgo dopo il terremoto del 1857 (nel link che ho postato prima ci sono i riferimenti sia per quel che riguarda gli orari che per telefoni, mail e siti internet). Mi hanno molto colpito due tombe dipinte, una delle quali dedicata al soldato Bartolomeo Francone, scolpita nel 1401. A memoria mia non ricordo di aver visto tombe dipinte di questo periodo, finora.
Certamente notevole è la cattedrale di Teggiano, dedicata a Santa Maria Maggiore, la cui caratteristica è quella di aver murate, nella parete lunga che affaccia sul corso principale, effigi funerarie romane. La chiesa venne edificata per volere di Carlo D'Angiò, ma - e lo si comprende bene sia all'esterno che all'interno - è stata rimaneggiata diverse volte. Si entra nella cattedrale da un ingresso cinquecentesco posto in un vicolo vicino, opera di Francesco da Sicignano. Sebbene l'impianto originario della chiesa risalga al XIII secolo, l'interno è stato completamente rifatto nel '700 (il che non mi ha resa granché felice, devo confessare).
Teggiano, cattedrale di Santa Maria Maggiore, ambone di Melchiorre da
Montalbano, 1271 (Foto: M. Grazia Terenzi)
Però la chiesa conserva alcune memorie di epoca anteriore ai rifacimenti del '700, quale la tomba originariamente destinata al soldato Stasio De Heustasio, rimasta a lungo vuota e destinata, alla fine, ad "ospitare" le spoglie del primo vescovo di Teggiano, Valentino Vignone.
Anche l'ambone merita sicuramente una foto (ed io l'ho fatta!). Si parla, in questo caso, dell'intervento di Melchiorre da Montalbano (1271) che ha voluto lasciare la sua firma sull'opera d'arte, sui bordi del prospetto laterale. Inutile dire che, per me, il contrasto tra queste opere d'arte medioevali e il resto dell'arredo della chiesa è notevole. Ma io non amo molto il periodo che va dalla fine del '500 agli inizi dell'Ottocento.
Quasi dimenticavo che Teggiano e il Vallo di Diano sono Patrimonio Unesco dell'Umanità e se ne capisce il senso guardando il paesaggio e percorrendo le strade di questo delizioso borgo. Strade pulite, dove sono presenti, addirittura, degli "erogatori" di bustine per i possessori di cani!
Giusto per "tingere" un pò di giallo questa visione paradisiaca, torno al castello, praticamente all'inizio del percorso di visita del paese. Ebbene, pare che qui, nel 1485, venne ordita la Congiura dei Baroni da Antonello Sanseverino Principe di Salerno nei confronti di Ferrante I d'Aragona re di Napoli. Antonello Sanseverino, poi, si asserragliò nel medesimo castello che resistette efficacemente agli attacchi dell'esercito del Duca delle Calabrie, che nel frattempo era divenuto re (per altre notizie in merito alla congiura, leggere qui, per ulteriori notizie sulla nobile ed importante famiglia dei Sanseverino, leggere qui. Si tratta di una lettura un pò lunga, ma vale la pena di "perdere" un pò di tempo per avere un'idea di quanto si agitava nelle lande campane in un periodo di per sé turbolento un pò per tutto lo stivale).

Le voci etrusche di Sutri

Sutri, vicolo nei pressi delle mura (Foto: M. Grazia Terenzi)
Una delle zone che trovo molto suggestive nel Lazio è sicuramente il viterbese. Sarà per le memorie etrusche e medioevali, che hanno quell'alone di mistero che tanto mi affascina. Oppure è per il tranquillo scorrere del tempo o per l'armonia tra la natura e gli insediamenti umani. Sta di fatto che, appena mi è possibile, un'incursione in queste zone la faccio più che volentieri.
Tra le cittadine che meritano una menzione è certamente Sutri, più o meno a 30 chilometri da Viterbo. Quando gli Etruschi la facevano da padrone, Sutri era, con la vicina Nepi, una sorta di sentinella sulla via Cassia. E' una cittadina arroccata su un rilievo tufaceo, del resto tutta la zona è un trionfo del tufo, un materiale di origine vulcanica, dal caratteristico colore scuro. Intorno c'è molto verde e silenzio. Se ci si va in mezzo alla settimana, sembra domenica, in pratica.
L'antico Lazio - Wikipedia
In un post precedente, il primo in assoluto di questo mio "viaggio fotografico", ho inserito una fotografia dell'interno della cattedrale di Sutri, di cui è notevole la cripta, a poterla visitare. Sicuramente vale l'euro per i quattro minuti previsti per un'illuminazione, anche se quattro minuti mi sembrano un pò pochini, a dire il vero. Bisognerebbe provare, ma, come ho scritto, l'aggeggio infernale nel quale va inserito l'obolo e che deve erogare l'illuminazione non funziona.
Comunque vale la pena anche solo fare una passeggiata per le vie tranquille di questa cittadina dalle memorie antiche. Sicuramente il cervello si riposa e torna "a quote più normali", per dirla con Franco Battiato.
Il tufo conferisce un colore ed un aspetto vagamente "toscano" al borgo. Questa pietra vulcanica scura è stata utilizzata dapprincipio dagli Etruschi e poi da Romani come elemento per diverse costruzioni ed anche il medioevo la impiegò per case ed edifici. Fuori Sutri è possibile vedere l'anfiteatro romano i cui gradini sono interamente scavati proprio nel tufo, così come in un blocco tufaceo venne, un tempo, scavato un mitreo poi trasformato in chiesa (mi sono ripromessa di tornare a visitare queste due strutture quanto prima). Del resto si tratta di un materiale immediatamente disponibile, per quanto certamente non molto solido.
Ho sempre percepito, netta, la presenza etrusca a Sutri. Forse è qualcosa che c'è nell'aria. Forse è anche il fatto che, allontanandosi da Roma, entrando in una dimensione diversa e "altra", sembra che le cose tornino a "parlarmi" e ogni angolo, ogni pietra, echeggi voci antiche.
Sutri, porta civica con orologio (Foto: M. Grazia Terenzi)

domenica 10 giugno 2018

La pace del piccolo battistero di San Giovanni in Fonte

Padula, battistero paleocristiano di San Giovanni in Fonte
(Foto: M. Grazia Terenzi)
Nel mio recente peregrinare per le terre antiche di Campania, mi sono imbattuta in quella che ritengo una vera "chicca". Si tratta del battistero paleocristiano di San Giovanni in Fonte, a pochi chilometri da Padula. E' ben segnalato perché è preso in custodia dal Rotary Club locale.
Mi è piaciuto subito perché è immerso nella pace e nel silenzio della campagna. Si sentono solo i richiami degli uccelli e il mormorare della fonte sulla quale insiste la struttura.
Come si vede dalla foto, non è un complesso molto grande, tutt'altro. L'interno è letteralmente pavimentato dall'acqua! Una particolarità davvero interessante. Si tratta di acqua sorgiva ed ha avuto un ruolo preciso nella decisione dei costruttori di questo piccolo battistero. Qui, infatti, si somministrava il battesimo per immersione, analogamente a quanto era accaduto a Gesù presso il Giordano.
Padula, battistero paleocristiano di San Giovanni in Fonte. Elementi
architettonici posti sotto la superficie dell'acqua
(Foto: M. Grazia Terenzi)
Ma, come quasi tutti gli edifici del genere, anche questo battistero sembra avere una storia più antica. Secondo lo storico Aurelio Cassiodoro, infatti, pare che qui ci fosse un luogo di culto dedicato alla ninfa Leucothea. Le ninfe, abitatrici di boschi e di sorgenti... quale luogo più ideale di questo? E' davvero uno spicchio di terra di una serenità incontaminata. Il battistero, datato al IV secolo d.C., è uno dei più antichi di tutto l'Occidente e faceva parte, un tempo, del borgo di Marcellianum, suburbio della Civita di Cosilinum, antico nome di Padula. Nell'XI secolo il battistero diventa chiesa e, due secoli dopo, viene affidato all'Ordine degli Ospitalieri di San Giovanni. L'abbandono della struttura data al '500.
C'è un sentiero che, dalla strada, arriva fino alla costruzione, percorribile sia in auto che a piedi. La vista è quella che appare nella foto. Un edificio che, nonostante il passare dei secoli, emana pace, serenità, spiritualità. Ci sono delle passerelle che permettono di dare un'occhiata all'interno della struttura, vista la presenza dell'acqua sorgiva. La trasparenza di quest'ultima è veramente impressionante: si riescono a vedere chiaramente i dettagli di alcuni elementi decorativi. Sulle pareti interne del battistero sono ancora parzialmente visibili gli affreschi che le decoravano. Suggerisco di fermarsi un poco in questo luogo davvero particolare, per godere appieno dell'atmosfera che vi si respira.
La visita è gratuita.

Passeggiata alla Certosa di Padula

Certosa di Padula, cortile che porta all'ingresso della Certosa
(Foto: M. Grazia Terenzi)
Un altro "ritorno" è stato, quest'anno, quello alla Certosa di Padula, un monumento alla religiosità come pochi in Italia.
L'ultima volta che ci sono stata risaliva ad un paio di anni fa. Allora la Certosa era chiusa per riposo settimanale (bisogna che mi ricordi sempre di consultare gli orari su internet!) e l'erba era cresciuta selvaggia e invasiva un pò dovunque tra le scale che scendono verso l'ingresso e il giardino della Certosa. Rimasi, mi ricordo, piuttosto delusa. La prima volta che ho visitato la Certosa è stata qualche decina di anni fa, con il gruppo culturale che frequentavo all'epoca. E, certamente, lo stato di salute dell'edificio era migliore.
Quest'anno ci ho provato di nuovo e sono rimasta piacevolmente sorpresa dalla pulizia e del decoro che ho (finalmente!) trovato. L'erba che ricordavo, invasiva e prepotente, è stata tagliata, sono stati liberati gli scalini di accesso all'abbazia ed il giardino è stato restituito al suo sereno splendore.
Premetto che il barocco - e la chiesa della Certosa è un inno a questo stile piuttosto ridondante - non è che mi piaccia granché. Ha un suo senso e un suo perché sul quale non sono mai stata troppo ad indagare.
Certosa di Padula, particolare del chiostro grande
(Foto: M. Grazia Terenzi)
Indubbiamente non si può non sostare pensierosi di fronte alla grandiosità di quest'edificio, che occupa ben 51.500 metri quadrati di superficie ed i cui lavori sono iniziati nel lontanissimo 1306 per proseguire fino al XIX secolo. La Certosa è Patrimonio Unesco dell'Umanità ed ha i numeri per esserlo, garantito. Quel che mi ha sempre suscitato perplessità è il connubio grandiosità (e conseguente impegno sostanzioso dal punto di vista economo) e religiosità.
Aggirandomi per i vari ambienti (e sono tanti!) della Certosa, mi chiedevo che ne era e ne è stato della povertà tanto predicata dal Cristo. Strutture come la Certosa di Padula devono essere costate un occhio della testa, per non dire due! E va bene che il mecenate di turno era un conte, tale Tommaso Sanseverino, che i soldi doveva averceli, eccome. Ma il cenobio che occupava, in modo più modesto e anonimo, il luogo dove ora sorge questo spettacolare complesso, non era forse più adatto ad una religione che ha sempre predicato (e in molti casi anche praticato) la semplicità e la povertà?
Al di là di queste riflessioni inevitabili, mentre percorrevo stanze, cortili, chiostri e cucine, ho avuto netta la sensazione di "granellino di sabbia" su una spiaggia immensa. La Certosa è dedicata a San Lorenzo, il santo "arrostito" su una graticola sulla quale è modellata la pianta del complesso religioso. Gli archi grandi e perfetti, al di sotto i quali si passeggia con il naso all'insù, sono qualcosa di straordinario. Questo luogo di una ieraticità severa e imperturbabile, fu anche campo di concentramento nelle due guerre mondiali. Questo, devo dire, mi ha molto stupita. Ho guardato i giardini meravigliosi, la campagna circostante, il piccolo centro abitato di Padula che sembra incombere sul chiostro grande della Certosa e mi sono chiesta come sia stato possibile che la violenza, la morte, gli orrori umani abbiano fatto irruzione in un mondo di pace e di silenzio quasi compatto.
La cosa più curiosa e che mi ha strappato un sorriso è stata la cucina. Per carità, non perché ci fossero piastrelle "Richard Ginori", tutto è assolutamente come era un tempo. Piuttosto è stata la storia delle 1.000 uova impiegate per una frittata da guiness dei primati, sfornata in occasione della visita alla Certosa di un personaggio reale. Non sono riuscita davvero ad immaginare che aspetto avesse questa super frittata. Mille uova sono davvero tante!
Come arrivare alla Certosa, orari e costo del biglietto si possono trovare qui.

Paestum, antiche memorie

Tempio di Athena nel Parco Archeologico di Paestum
(Foto: M. Grazia Terenzi)
Paestum è un luogo dell'anima, per me. E' legato alla mia infanzia, quando, ancora bambina, passavo le vacanze estive dai miei nonni, nel piccolo paese di collina dove vivevano, all'interno del Parco del Cilento.
I ricordi, peraltro piuttosto scoloriti dal tempo, mi restituiscono immagini sfocate di un luogo dimenticato da Dio e dagli uomini, lanciato nella campagna circostante così come si lancia via un sasso.
Ricordo sonnolenti custodi quasi stupiti della presenza di visitatori; l'erba riarsa dal sole, il silenzio, la solitudine. Un senso di abbandono e di oblìo che ho sempre, da allora, associato alle preesistenze antiche. Un'immobilità che non conosce tempo né mutamento. Affascinante e inquietante allo stesso tempo.
Da qualche parte credo di aver conservato persino delle foto in bianco e nero di quel tempo lontano. Ne ricordo, in particolare, una dove una bambina dai capelli a caschetto neri - la sottoscritta - posava tra le severe colonne del tempio dedicato a Poseidone (quello che poi si è scoperto essere dedicato, forse, ad Hera). Avevo un vestitino con una gonna ampia appena gonfiata da un vento invisibile e corti calzini bianchi. L'espressione del viso era piuttosto imbronciata perché - allora come ora - non mi è mai piaciuto farmi fotografare.
Molte cose sono cambiate, con gli anni ed i decenni, in questo luogo della memoria. Ora sono tornati i colori, insieme con i turisti che, sempre più numerosi, si disperdono, accaldati e stupiti, tra scavi e museo. Per qualche tempo ho pensato e segretamente sperato che fosse tutto rimasto un pò come prima: il silenzio, le antiche presenze, l'entusiasmo e la freschezza dell'infanzia e poi dell'adolescenza. Ma è giusto che le cose siano così come sono.
Giardino del Museo Archeologico di Paestum
(Foto: M. Grazia Terenzi)
Ho scattato la foto che ho inserito nel testo al tempio di Athena, il "tempio solitario", come mi piace chiamarlo. E' il primo tempio che si incontra percorrendo via Magna Grecia da Capaccio Scalo. Per molto tempo si è ritenuto che fosse un tempio dedicato a Cerere, la dea romana delle messi. Ed in effetti quest'attribuzione aveva un suo senso, vista la campagna circostante e vista la vocazione prevalentemente agricola della zona. Poi scavi più approfonditi hanno permesso di recuperare delle statuette fittili in terracotta e delle dediche entrambe riguardanti Athena, la dea guerriera. E così il tempio ha cambiato denominazione.
Nel medioevo la piana dove sorgono i templi è diventata una palude. Non c'erano, all'epoca, i mezzi e la tecnologia per evitare l'abbandono di questa perla archeologica. Gli abitanti dell'epoca, sempre più ridotti di numero, costruirono, allora, alloggi di fortuna a ridosso del tempio di Athena e all'interno del perimetro del tempio antico inserirono una piccola chiesetta. Il tempio, infatti, sorge su una sorta di piccola altura, sicuramente non interessata, all'epoca, dall'impaludamento.
Paestum, diventata amministrativamente parlando un tutt'uno con il comune di Capaccio, ha una vocazione prevalentemente turistica. Poche case sparse nella campagna, raggruppate in frazioncine dai nomi che hanno "sapore" di sud (Licinella, per esempio), molti alberghi e ristoranti che lavorano al servizio di turisti sempre più numerosi, i soliti negozi di souvenirs classici, di bigiotteria, di abbigliamento. Niente di più. La sua bellezza rimane la statica immutabilità di quei templi, di quelle mura, di quelle antiche presenze che "lavorano" per il bene di molti.